Assaggi musicoletterari - nr.1 Ash "Lose Control"
Il Taxi Driver era pieno, stracolmo di gente. Insediatosi sul fondo di una stradina a circa cinquecento metri dalla Via Etnea, l’arteria principale della città di Catania, il pub aveva aperto i battenti da soli due anni; ma in poco tempo era diventato un ottimo punto di riferimento per il circuito della live music locale, prestandosi anche a interessanti scambi culturali con il panorama musicale europeo.
Quella sera accoglieva al suo interno centinaia di persone, affollate per la maggior parte intorno al palco per godere dell’esibizione di un gruppo indie-rock arrivato dall’Irlanda.
L’atmosfera era carica di energia. Da qualche settimana, infatti, si erano conclusi i festeggiamenti per la nascita del nuovo millennio e nell’aria c’era ancora rumore di festa. Gli animi dei ragazzi erano agitati e infervorati, sciolti all’inseguimento di un’illusione di cui inebriarsi per colmare quei piccoli vuoti che minacciavano di insinuarsi più profondamente in loro; o anche solo di una scossa di adrenalina che li scuotesse dal loro torpore quotidiano. E la musica degli energici Ash, con la loro “Lose Control”, sembrava essere perfettamente in grado di assolvere questo compito, almeno provvisoriamente.
L’anno Duemila era appena cominciato ed era quasi d’obbligo sentirsi felici, come se una data su di un calendario potesse rendere la gioia anche a chi sapeva di averla perduta ormai senza rimedio.
Una data. Sì, una data era rimasta impressa, marchiata sul cuore di Rebecca con cifre sanguinati: il 14 Gennaio del 1975, quando si spegneva, nel reparto di rianimazione dell’Hartford Hospital di Glastonbury, il suo più caro amico Sebastian. La corsa della sua giovane vita si era arrestata prematuramente, lasciando sulla sua strada soltanto il segno di una brusca frenata sull’asfalto.
Rebecca non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui aveva accompagnato Sebastian alla sua ultima dimora, scortandolo lungo quello che tutti credevano sarebbe stato il suo ultimo viaggio. La bara bianca, candida e lucida, aveva accolto le labbra di lei in un ultimo, estremo, straziante saluto d’amore prima di essere rinchiusa nell’oblio di una cella di fredda e marmorea eternità.
Brandelli di vita pendevano dagli occhi della ragazza tramutandosi in lacrime per fuggire indisturbati senza svelare la propria reale natura. Lei sapeva che con Sebastian anche una parte di se stessa era morta e adesso giaceva lì, immota, dentro quella nicchia sul cui ingresso un uomo stava ponendo del cemento fresco. Tutto ciò che vi era rinchiuso non sarebbe mai più potuto uscire, almeno secondo l’umana concezione.
Ma era il 14 Gennaio del 2000 e nell’arco esatto di quei venticinque anni aveva rivisto Sebastian migliaia di volte, anche se ormai lo chiamava con un nome diverso da quello con cui il mondo lo aveva conosciuto.
Se la natura avesse compiuto indisturbata la sua opera, di lui adesso non sarebbe rimasta che polvere; se il normale scorrere del tempo non fosse stato alterato da strani ed inspiegabili eventi Rebecca avrebbe festeggiato a breve il suo quarantasettesimo compleanno. Invece andava in giro con l’aspetto giovane e fresco di una ventenne, poiché gli anni si erano congelati sul suo corpo donandole un fascino etereo, impalpabile, che rapiva chiunque incrociasse il suo sguardo ipnotico. Sguardo che si era posato adesso con curiosità su di un gruppo di ragazzi che diffondeva un tremendo baccano all’interno del locale; ridevano e scherzavano consumando un’enorme pizza tra un pettegolezzo e un sorso di birra. I lunghi mantelli di raso, che svolazzavano morbidamente al loro passare, erano ora adagiati su di una sedia poco distante, ma le catene erano ancora lì a cinger loro la vita ed i polsi, pendenti e tintinnanti come quelle dei prigionieri negli antichi manieri medioevali; vestiti di morte, come sapevano totalmente spogliarsi della loro maschera tenebrosa alla prima idea bizzarra e divertente che sfiorava le loro menti! Ragazzini viziati che non avevano mai realmente conosciuto il dolore, diversamente da lei. Eppure non li invidiava affatto: erano allegri perché la morte sospirava sulle loro schiene, ma loro non la percepivano. Erano inconsapevoli e felici come un agnellino alla vigilia di Pasqua.
Rebecca li definiva “il branco”, poiché erano soliti muoversi sempre in gruppo, fregiandosi di appartenere ad una ristrettissima cerchia fortemente elitaria. Ma forse l’appellativo “gregge” sarebbe stato più appropriato.
Le loro risa erano appannate da una vetrata che li separava dall’area esterna del pub e le parole che si scambiavano si mescolavano con l’eco della musica che si diffondeva dall’interno del locale; e per lei fu quasi un sollievo non esser costretta ad ascoltare le loro tediose conversazioni: in quale discoteca si sarebbe svolto il prossimo dark party? Quale concerto si sarebbe tenuto nelle future settimane? E chi aveva visto il nuovo modello di pantaloni di vinile esposti nella vetrina di “Inferno e Suicidio”?
Sedeva su una delle panche di legno del cortile con aria annoiata, chiedendosi cosa ci facesse ancora lì, sola. Non lo sapeva, ma era certa di non aver nessuna voglia di tornare a casa: era venerdì sera e la notte era appena iniziata.
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